giovedì 27 novembre 2008

Nuovo appuntamento con "Leggimi nei pensieri".

Miei cari,
di tanto in tanto posto qualche stralcio dei racconti/monologhi del mio libro.
Avrebbe dovuto trattarsi di un appuntamento settimanale e invece è diventato un' occasione, distribuita nello spazio del "Blorum" in modo casuale.
Questa, è la volta di "Santiago".
Un giovane violinista, rapito dalla bellezza del creato, animato da una sete profonda di armonia, creatura inafferrabile colorata di opposte mescolanze e desideri di contemplazione estatica...
Sembra un sogno, ma qualche traccia di Santiago nella mia realtà io l' ho sfiorata.
Vi bacio.
Mara

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Santiago.

Sono nato in una città di mare. Una grande città, un passato lontano, orizzonti invisibili infiniti.
Se dovessi ricordare il più bel sogno mai fatto non avrei dubbi, fu più di dieci anni fa, nella notte che spartisce l’inizio del nuovo anno da quello appena passato. Per tradizione, in Oriente, è il momento dei sogni che guardano al destino che vuole compiersi. Per me, anche se l’avrei scoperto solo dodici mesi più tardi, è stato così.
[...]
Mi chiamo Santiago perché mia madre gravida, mentre attendeva un segno sul nome da dare a suo figlio, sentì venire dalla strada la voce di un imbarcato di chissà quale paese, che chiamava un compagno con quello stesso mio nome. Era una donna molto sensibile ai segnali del cielo e della natura, un tempo l’avrebbero detta superstizione, per gli uomini di oggi è solo una nuova cultura. Semplicemente scorgeva notizie nel suo vivere che, credeva come molti, carico di tracce, pure appena percepibili, del futuro che si preparava. Confidava che poco avvenisse senza aver seminato qua e là un ombra di preavviso, perché a suo dire, ogni creatura si muove, anche se in modo assolutamente inconfessato e magari inconsapevole, in direzione di ciò che desidera far accadere. In positivo, tanto quanto in negativo, in una direzione distruttiva... E lei diceva di non conoscere purtroppo qualcuno che non avesse sperimentato il più amaro e beffardo dei non amori, quello rivolto contro sé stessi.

Ad ogni modo Santiago fu il mio nome. Mamma non ebbe alcun dubbio e mio padre non fece obiezioni. Era un forzato nei cantieri navali che, a furia di stare fermo, immobile, avvitato in un luogo dove tutto è teso verso l’ altrove, verso il salpare, aveva sviluppato forti pulsioni alla volta dell’ignoto, il poco conosciuto, l’inusuale, verso tutto ciò che aveva l’ odore della partenza e possibilmente del non ritorno… Naturalmente anche mia madre. Erano, a voler esprimere per concetti il loro distacco, due volontà convergenti in direzioni opposte…
Questo nome comunque, quanto tutto ciò che faceva da sfondo alla mia esistenza, ha avuto il suo significato, e la mia origine, con ciò che è venuto dopo, sono stati imbevuti di quello che oggi potrei definire una particolare manna di sincretismo..
Mi chiamo Santiago cioè Giacomo, come S. Giacomo il discepolo di Cristo, apostolo della tradizione, ma quel nome straniero ha sempre, ovunque e in chiunque, evocato mete esotiche e sconosciute, sponde vaghe, e profumato di significati occulti, misteriosi, iniziatici. Nulla nel mio nome rimandava a qualcosa di netto, definibile, manifesto alla luce del sole, per tutti leggibile...


[...]
Il mio aspetto è quello di un giovane indù. E non solo per gli abiti che indosso o per la mia barba, ma per via della carnagione, scura non alla maniera dei mediorientali, olivastra e secca, ma bruna e porosa, lucida come si può vederla nei volti fra le polveri di Calcutta, o immersi nel letto del Gange o, ancora, nei sobborghi londinesi.
Di mio padre ho gli occhi, che confermano quanto ho immaginato a proposito del sincretismo. In lui non erano che una conferma di stirpe europea, armonico richiamo al pallore e ai capelli cenere, in me tutto l’opposto, un imprevisto segno di particolare mescolanza, di commistioni cromatiche inaspettate. Alla nascita nessuno pensò che i miei occhi sarebbero rimasti trasparenti così come sono oggi. Nessuno eccetto mia madre, che alla sua maniera ci vide un altro segno dell’ armonia degli opposti voluta con la mia nascita.
[...]
All’oggi convivono in me pulsioni profonde alla piena comunione, con insopprimibili bisogni di solitudine e intima assenza. Ho dentro di me calma serafica e follia di ardore inaspettato, quando mi ritrovo fuso con il mio violino, suonando fino a diventare un unico, solo strumento.
Vivo della mia passione. Suono il mio violino nelle piazze, ai crocevia delle strade, ai piedi delle scale delle Chiese, all’uscita delle scuole. Scrivo la mia musica quando sento la temperatura dell’aria che muta e si fa più tiepida anche in inverno, gli odori che accentuano le loro note, i suoni della natura che si rendono percepibili anche nelle loro manifestazioni più intime, quando avverto una sensazione di calore intenso dentro di me e quell’ inspiegabile esaltante euforia che annunzia i cambi di stagione. Compongo quando tutto ciò mi allerta e mi parla dell’arrivo della mia ispirazione.
[...]
Il mio ultimo approdo ancora non posso vederlo.

Non ho da dire che questo: sono Santiago, nato da colori mischiati, da voci di tonalità lontane; rapito dall' impeto di venti che creano vortici di correnti; fatto di note parziali che cercano di trovare una loro unica, sacra, melodia.

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lunedì 24 novembre 2008

My space.

Un paio di settimane fa.

Sabato.

Al GAP di Bari.

"GAP" è un acronimo curioso e moderatamente attraente che sta per "Giovani Artisti Pugliesi".

Una rassegna d' arte contemporanea di qualità, under trenta, giunta alla terza edizione; un premio all' ingegno, alla creatività che si fa critica e lettura sensibile della società, esposizione di padronanza del mezzo espressivo più vario e di rottura, specchio di mondi immaginativi e background e storie personalissime, lasciati liberi di fluire e di manifestarsi.

Non sia certo, questo del "Blorum", lo spazio della critica incompetente. E' solo uno spunto la mostra, per pensare ad altro. Per un volo pindarico, per andare oltre, pur restando nel mio. Un tornare indietro con il filo del tempo, per sfiorare un' emozione che ahimè, e chiedo perdono di questo all' artista Agata Difino, ha poco a che fare con la sua opera "My space", un' installazione spettacolare, metafora del valore del vivere, illuminato da piccole , innumerevoli luci, in pochi momenti di enorme buio nero.

Il mio spazio , la mattina di un sabato al GAP, è stata la notte.

L' incontro con la più nera, respingente, spaventosamente vorace, oscurità.

Quel giorno, le luci erano spente.

I mille lampi che avevano la missione di fendere e aprire il buio per far posto all' essenza della vita, simbolo della luce oltre le tenebre, l' intero lavoro di ricerca e riflessione dell' artista, quel giorno, erano fuori servizio. Organizzatori, personale presente o chi altri, non so, avevano spento la luce e la cabina a pannelli di cartongesso che ospitava il gioco di legno, vetro e led luminosi era immersa in una notte nera, senza stelle e luna, sebbene fossimo in una mattina assolata e calda.

Ero lì, davanti alla tenda scura e spessa che copriva l' ingresso della cabina.

Ero lì e ho scostato appena un lembo e messo dentro un pezzetto di testa, giusto per vedere che cosa mi attendeva, una volta dentro.

Mi sentivo incerta, anzi, sconcertata... Non vedevo.

Non vedevo nulla.

Se entrassi -mi dicevo- potrei cadere, sbattere contro qualcosa, essere assalita da creature misteriose, perdere l' orientamento...

In quel momento ero sola.

Per natura io tento. Non mi tiro indietro. Sono maledettamenre curiosa, amo le sfide. Le più piccole come le più ardite. Provo sempre. Ma non sono imprudente, nè incosciente.

E lì non rischiavo nulla, in fondo. Bastava mettere le mani avanti...

La camera è oscura a dir poco. Non vedo sagome nè contorni.

Sono respinta verso l' uscita da questa sensazione opprimente di buio che mi avvolge. Lo sento, lo percepisco, è come un' ombra gonfia che si accomoda attorno a me. Mi mangia i confini.

Gli occhi non sono pronti e l' oscurità resta densa e nera.

Poi, è un attimo, espiro, mi rilasso.

Poco a poco i toni del grigio si tendono nelle loro maglie fitte e distinguo le forme in cui sono immersa. C' è uno specchio, è alla mia sinistra. Mi avvicino, troppo, quasi ci attacco la fronte su, voglio vedermi, voglio vedere il mio viso... Niente.

Solo una linea accennata della bocca. Nient' altro.

Mi giro attorno, allungo in avanti le braccia; le allargo, ho spazio. Sto bene.

Mi sento molto bene.

Scorgo una sedia in un angolo. In questo momento ho voglia di restare qui. Mi siedo.

E' davvero sorprendente, ora vedo. Il buio è diventato una dimensione sospesa. Intensa. Di nudità.

Accanto al buio si è posizionato un silenzio irreale. Posso pensare, è uno spazio, il mio, di solitudine interrotta solo dal circolo dei miei pensieri e dalla pace dello straniamento che diventa dimensione di riposo e quiete, che giunge ad interrompere la giostra del quotidiano.

Penso che vorrei restare. Non uscire più.

Qualche giorno più tardi, parlando con Gabriele Benefico, un artista di grande ispirazione, contemporaneità e impatto visivo, le cui opere esposte al GAP mi avevano attirata lì, ho scoperto che l' installazione "My Space" io non l' avevo vista. Tutto era spento, non c' era l' opera, era stata dismessa...

Sono rimasta a pensarci... Quel buio a me aveva detto tanto.

Ogni tanto ho davvero bisogno, come tanti, di silenzio.

E di tenere gli occhi chiusi. Con due mani sopra, a impedirmi di riaprirli.

Mara

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mercoledì 19 novembre 2008

Blorum in stand by...

Carissimi,

alcuni di voi già lo sanno dalla mia pagina su Facebook, purtroppo da ieri sono in attesa dolorosa, spero e prego che le condizioni molto gravi in cui versa il mio "capo", il conduttore televisivo Lello Orzella, dopo una caduta, evolvano positivamente.

E' una persona a cui devo tantissimo, mi lega a lui molta riconoscenza per la stima, la disponibilità, la fiducia che ha sempre mostrato nei miei confronti.
Lui mi ha voluta a "Polifemo", sua creatura e grande successo televisivo a livello locale, ormai alla dodicesima edizione. Lui ha puntato su di me, rendendomi protagonista della sua nuova creatura "Polifemo Provincia".

Che dire di più? Per ora sono in stand by... Non mi sentirei davvero di divagare...
Ci risentiamo presto, spero con delle notizie positive.

Vi bacio tutti.

Mara

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sabato 15 novembre 2008

"Che cossè l' amor" ...


Che Cossè l' Amor
chiedilo al vento,
che sferza il suo lamento sulla ghiaia
del viale del tramonto.
All' amaca gelata che ha perso il suo gazebo.
Alla porta.
Alla guardarobiera nera e al suo romanzo rosa.

E' un sasso nella scarpa.
E' il rito di ogni sera.
E' la Ramona che entra in campo.
E' un indirizzo sul comò.
E' quello che rimane da spartirsi e litigarsi nel setaccio della penultima ora.
(Vinicio Capossela, Camera a sud, 1994)

Che cos' è l' amore?
E' il non luogo del non senso.
La culla di qualsiasi imperfetta virtù.
L' alveo dell' ingiustizia e dell' assenza di ogni evidente qualità.

E' l' indefinito detto, il vuoto di certezza e di ragione, l' effimera verità dell' emozione e del sentimento che si fa sostanza.

L' amore che non si inganna è trascendenza di sè, per questo esige cecità, mutismo dell' udito, il veto ad ogni parola brutale, la liberazione della mente da bilance con piattelli pendenti a favore del giusto, contro l' ingiusto.

L' amore non parla lingue conosciute e stupisce il depositario quanto il suo destinatario: non esiste ragione giustificata, non un solo perchè che, pur in una giaculatoria di doti e qualità, sia il seme alla radice di quell' emozione che nasce nel petto e nelle viscere, in luoghi inesplorati e profondità ignote.

L' amore è uno stato di contemplazione attonita e stupefatta sospensione.
Spia con sospetto quella sensazione di soddisfazione da ogni fame e ogni sete, con il terrore intimo del buio che può inghiottire quella grazia così come è venuta, e lasciare nuovamente soli in una stanza chiusa, fra poche pareti spoglie e due passi tra il letto e la porta sbarrata...

Perchè mi ami? Perchè ti amo?
E' la carne che lo chiede.
E' l' anima che inchioda.


Mara

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lunedì 10 novembre 2008

Mama Africa: Tributo personale a Miriam Makeba.

Il post di oggi è un post senza pretese.

E' solo un semplice ricordo, del tutto personale, di una donna che ha vissuto giorni profondi, densi di senso, nutriti di forza e di verità.
...
Il 27 luglio del 2005 a Grottaglie, un piccolo centro di provincia noto per le sue ceramiche, vidi Miriam Makeba.
Il Festival di musica etnica e popolare "Musica Mundi" la accoglieva, quell' anno, come ospite d' onore.
In un complesso evocativo di cave di tufo, buio e polveroso come immagino fosse la terra antica, l' ho sentita cantare.

Ho ascoltato la sua risata forte, di gola, di cuore.
La sua voce, le sue parole accorate di canzone in canzone.
L' ho vista danzare su di un palco troppo piccolo e stretto per la sua voglia di riempirlo e per la pienezza della sua passione.
I miei occhi si sono colorati delle sfumature delle sue vesti e le mie orecchie sono state catturate dal suono ritmico, ancestrale, dei tamburi dei musicisti che la accompagnavano, con il rispetto che si deve alla madre di tutte le madri della terra.

Lei cantava.
La voce nasceva dal profondo del suo petto e sembrava ridesse. Spesso rideva.
Come per la gioia e il piacere di essere lì, felice di avere ad ascoltarla un pubblico incantato.

Miriam cantava.
E lo faceva perchè non avrebbe potuto fare altro. Lo disse più volte, in quella serata calda.
Non avrebbe potuto fare altro, non sapeva fare altro. Così raccontò di sè.

Sapeva fare molte altre cose, invece. Perchè era coraggiosa, e impastata di sangue, anima e smisurata passione.
A settant' anni passati, sentiva che solo il suo corpo recalcitrava un po', non era più il compagno di un tempo. Quel 27 luglio di tre anni fa, disse che quella sarebbe stata la sua ultima tournèe.
Amava moltissimo l' Italia, voleva congedarsi e salutare tutti da qui, dal nostro paese.
Durante il concerto, passò il testimone, affidò la sua eredità ad una delle sue nipoti, una vocalist florida e sorridente, che sparse brividi nell' aria, con una nenia sudafricana a sola voce.

Miriam Makeba è morta oggi a Castel Volturno.
Dopo aver cantato in un concerto che lei sentiva importante, una doverosa testimonianza nella lotta per la giustizia cui aveva dedicato il senso della vita.
Ha vissuto il suo ultimo giorno cantando e invocando il diritto alla legalità e all' uguaglianza fra i popoli. Così come aveva fatto per anni, nella sua battaglia contro l' orrore pestifero dell' apartheid.

Un' esistenza intera spesa per la passione e per la giustizia.

Mi piace pensare che Miriam Makeba avesse chiaro il valore e la preziosità insostituibile di ogni singolo giorno in cui i suoi occhi neri si sono aperti alla vita.
Anche se, probabilmente, come tanti altri grandi, si sarebbe schermita e avrebbe detto di aver vissuto come sentiva, come doveva, per un intimo bisogno di fedeltà alla condizione privilegiata di essere umano.


Mara

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giovedì 6 novembre 2008

Asleep.

Oggi mi sento così.

La testa pesa, il collo di sua iniziativa si curva in avanti; al centro della fronte una pressione si attorciglia a spirale e spinge verso il basso le palpebre.
La bocca si schiude appena, ho un' aria un po' stolida... ma sono sola con la mia tastiera e dunque poco male.

Avevo sette, otto anni, e ricordo la mia prima, e finora unica, crisi da impossibilità a prender sonno.
Una settimana in tutto, non un giorno di più, che mi sembrò più interminabile del mio concetto infantile di eternità.
L' anima vagava, sonnambula in pena, prigioniera di uno spazio sorprendentemente inospitale.
Nella notte non vagavo, non mi alzavo mai dal letto, restavo con gli occhi fissi sul piccolo quadretto di foto, in obliquo dalla visuale del mio cuscino. Una delle immagini era di me e mia sorella piccolissime, vestite a maschera da mesti pierrot, facce smarrite e amareggiate, in una festa di sconosciuti, magicamente calate nel ruolo del pagliaccio infelice...
La guardavo e riguardavo, nella notte...
Anche non volendo, lo sguardo era attratto, come calamitato...
Mi sentivo sola, nel buio, alla maniera di un povero clown di un circo scalcinato.

Le più belle pagine mai lette, sull' impossibilità di trovare la pace dell' oblio, appartengono allo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, nella prima parte de " L' amante".
Dafni, la piccola protagonista, non può dormire.
Ne ha bisogno, vuole dormire, lo desidera, anela con la disperazione della sua condizione di insonne a scivolare nel buio; vorrebbe solo svegliarsi la mattina, all' improvviso, come riemergendo da uno stato di accogliente silenzio senza turbamenti, ma non può. Non ci riesce.
Gli occhi restano aperti, bruciano, sente aghi, cento spilli infilati in ognuno di essi, avverte la fatica del corpo dolente senza riposo, ma niente.
Non può dormire.

Ancora oggi, se penso alla solitudine, una parola si fa strada, ed è "insonnia".

La sera vado a letto tardi.
Una storia familiare per linea materna parla di notti amate più del giorno, di cinematografia sottotitolata di tempi andati, silenzio che scricchiola, rassegne stampa dei primi bagliori del giorno, sguardi fuori dalla finestra all' aria che scolora.

I miei periodi più nervosi, affollati di tappe vicine da cuore in gola, si risolvono non in veglie notturne ma in risvegli prematuri.
Basta un soffio, accanto al mio orecchio destro, per ritrovare subitanea lucidità e mente attiva capace di produrre piani geniali più che in ogni altro momento della giornata.
L' adrenalina raggiunge il suo picco, mentre sono stesa allungata sul fianco; i muscoli si tendono e quasi li sento guizzare...
Impossibile pensare di richiudere gli occhi.

Come da piccola, resto stesa. Il fatto è che, per me, nonostante tutto la speranza è sempre l' ultima a morire.


Mara

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domenica 2 novembre 2008

Il sentiero dei ricordi.


Giorno di sentimenti e colori intimi dalle sfumature segrete, lontane.
Melodie dolenti, canzoni dolci e amare, armonie di sorrisi che si consolano di ricordi buffi, voci di pianti silenziosi persi in una nebbia scura al centro del petto.
...
Il culto dei morti ha per me l' odore di fiori in vasi di vetro opaco, su di un piccolo altare casalingo in marmo.
Ha la fatica di un corpo pesante su ginocchia piegate.
Ha il rumore sommesso di misteriose orazioni, lunghe corone di grani scuri di legno, per la grazia di anime amate, o ricordate, talvolta, solo per invincibile senso del dovere.
Il culto dei morti ha il volto di mia nonna materna e la coriacea consapevolezza di una ritualità quotidiana senza assenze o mancanze, un sentimento di sacro rispetto e timore.
Due giri di rosario per cento eterno riposo quotidiani, giaculatorie ritmiche a suggellare l' invocazione alla pietà di Dio per chi, cosciente o volente, aveva peccato e attendeva nella privazione del Purgatorio.
Mia nonna pregava. Affinchè il transito di espiazione fosse breve e l' accoglienza in Paradiso non tardasse ad arrivare. Era dovere per lei. Era amore. Era culto.
...
Ogni giornata della memoria ha sempre avuto, nella mia esperienza della perdita, il sapore di una interruzione infelice del ritmo del ricordo.
Allo stesso modo, ogni anno, mi compiaccio nell' osservare, lungo i viali dei luoghi del riposo, i passi lenti affaticati dagli anni, o le corse giovani e frettolose trattenute per sentito rispetto.
Osservo ammirata la ritualità composta, i sentimenti di partecipata corrispondenza fra coloro che sono raccolti a compiere i medesimi gesti, a ripetere le stesse parole, ricordando volti e nomi diversi, con uguale tenerezza e rimpianto.
Accolgo così il senso di un giorno in onore del rito, che frattura il flusso serrato della vita e onora di atti visibili gli affetti del cuore spesso vissuti in silenzio, nell' invisibilità della solitudine.
...
La pena della perdita rimane a corto di parole.
Ne vengono proferite poche, si assomigliano tutte, sebbene raccontino dolori dalle sfumature infinite e piangano storie nutrite di ricordi lunghi vite ed esperienze sature di eventi, emozioni, sguardi, voci.
Poche, povere parole.
Non sembrano adatte a esprimere il dolore.
Lo comprendo con crescente consapevolezza: inaridiscono i significati, lapidano i ricordi in fotografie statiche, stendono coperte monocolore su vicende umane così ricche di sentimenti insondabili da non poter accettare riduzioni o definizioni.
Il dolore non ha parole. La sofferenza vera va lasciata alla cura del silenzio.
Chi ha amato, chi patisce, va accolto come colui che sperimenta la pazzia. Con generoso amore, attenzione delicata, tacito rispetto. Senza troppe parole.
In un silenzio scevro di sè.
Mara

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