martedì 27 gennaio 2009

Il tempo del pane e delle rose.

Il primo matrimonio a cui partecipò mia madre da bambina finì a pane e salame.

Anni cinquanta, primo dopoguerra, un cerchio di sedie di legno con l' imbottitura di paglia, nello spiazzo rasato di una casa colonica appena fuori dal centro del paese.

Gli sposi, due ragazzini con le guance rosse, usciti dalla guerra e dal giogo paterno con molta voglia di vivere, nascosta dietro sorrisi appena accennati ed espressioni composte.

Il tempo era quello delle maniche da rimboccare su avambracci scarni e del riposo notturno subito dopo il rosario, recitato come una canzone lenta tutti riuniti attorno al tavolo.

La fame aveva prodotto nuove energie e impeti al fare senza pigrizia nè egoismo.
Il sogno concreto era il lume sul moggio nelle case e la speranza non sapeva solo di illusione.

Pane e salame, dunque.
Una grossa pagnotta a testa, due per gli uomini.
Dicono sembrasse il pasto più buono al mondo...
Il pane si scheggiava in superficie, sulla crosta croccante, e aveva un cuore bianco, caldo e arioso che odorava di mani materne e fuoco, alimentato da uomini fatti.

Le nozze dei contadini appena liberati dagli alleati, concedevano a occhi e bocche di parenti e amici, solo un di più che sapeva delle feste che ricorrono una volta nella vita. Una tavolata di legno grezzo messa in un angolo, coperta di dolci fatti a mano da tutte le donne della famiglia, per giorni, a cominciare da quelli di pasta di mandorle e dai torroni, per finire con le creme e la ricotta con lo zucchero e il cioccolato.
Mamme e suocere, zie, cognate, nipoti, fidanzate, tutte a impastare e a friggere impasti che avrebbero ricordato la festa nelle voci dei vicoli e nei crocchi d' estate appena sfuori dagli usci.

Semplicità e ispirazione realistica.
Pane scuro, amore per il dovere, misurata fantasia.
Profumati tarallini inzuppati nel vino rosso e il freddo delle case in pietra dura.

Il tempo fuggito che si ricorda come la dolcezza di una nenia infantile.


Mara

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mercoledì 21 gennaio 2009

Una stella cadente.

Falling star.

Precipitata giù in un sospiro.
Secca emissione d' aria dai polmoni, un istante fulmineo e a fondo, via nel ricordo.

Debole istinto fallace, impulso vitale feroce, bisogno avido e chiaro lasciato a struggersi insoddisfatto.

La vita corteggia di occasioni di breve assenza di lucidità. La vita riporta le palpebre chiuse in alto, nuovamente aperte dopo pochi attimi di indugio.

Recuperi forza, riprendi vigore, guarisci di fiducia e smarrisci pazzia per una pace che si dilata in ogni anfratto smarrito di anima e corpo.

Febbre passata, convalescenza sulla via della dimenticanza, i fiori di loto nella boccetta magica nascosta ai piedi del letto fanno il loro dovere, consegnando all' oblio ogni velleitario impeto.

Amazzone fedele dallo scorpione nero tatuato sul braccio, grandi tragedie e altrettanto rapida consolazione.


Mara

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mercoledì 14 gennaio 2009

Il quadro corale di Cla.


Vale una chiusura, ecco perchè Cla è assorta e non sa decidersi.

E' il quadro che scrive la parola Amen.
E' un capitolo cruciale della storia che si compie.

E' il punto alla fine di un quaderno di cui si è perso il conto delle pagine, ai piedi dei fogli.

Chiuderà la mostra. E sarà corale.

Saranno persone.
Anime salve che cercano e non si aspettano. Saranno facce e solitudini pensanti, espressioni incompiute e sfumature distanti ai quattro angoli dei punti cardinali.

Il quadro di Cla avrà corpi e tensioni, movimenti silenti impressi nella pelle, nelle rughe appena accennate, negli occhi, nei muscoli e nei nervi tesi di figure ferme. Inchiodate in un istante che è solo per chi guarda, perchè loro saranno già andate via, lontane, perse nella vita che fugge e non riempie nessuna cornice quadrata e chiusa.

Francesca.
Donato.
Raffaele.
Sandro.
Angela.
Io.

Lei ci crede: qualche altro ci vorrebbe, ma è difficile, e più sono e più il tempo ride e si fa beffe di Cla, scomparendo e rimaterializzandosi a strisce concentriche come lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie...
E lei, in verità, un po' Alice lo è, anche se si arrabbia e non vuole esserlo, stringe i pugni e si concentra per cavare una nocciolina di razionale concretezza da uno spirito fluttuante ad arabeschi colorati...

E' deciso, io dovrei sorridere.
Ne abbiamo un mucchio di sorrisi sparsi in foto di cento momenti di confetti e colori e brindisi rumorosi... Ma Cla scuote la testa convinta e dice no. Il corpo non c' è e invece deve!
Così domani mattina mi metterò in posa mentre lei scatterà con la sua Nikon digitale.

Donato ha patito 65 scatti.
Io, già lo so, cercherò una scusa e fuggirò via.

E alla fine, davanti al quadro di Cla mi sorprenderò e resterò a pensarci.
Di non riconoscermi mai nei suoi occhi assorti che mi vedono dell' antico colore del nero di seppia.

Mara

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sabato 10 gennaio 2009

Ho sognato che piangevo.

Stanotte.
No, sbaglio, era mattina.
Anche piuttosto tardi.

Ho messo i piedi per terra e fatto una telefonata urgente, schiarendomi prima la voce per pulirla dalla sordità muta della notte, ancora addosso a me.
Poi sono tornata nel letto, spossata dall' assenza di fiducia, e mi sono addormentata, ancora.

E' stato allora che ho sognato.
Ho sognato che piangevo.

Ho scoperto di conoscere il pianto solo pochi anni fa.
Esiste un pianto che non è così noto, prende le sembianze di una lucida possessione, rapina pensieri franchi e succhia le forze dal fondo del corpo, come se servisse a non lasciare dentro neppure una stilla d' anima.
Esiste un pianto che ignora la legge della pudore e della verecondia, che impone la sua vergogna sfacciata e la violenza dell' istinto, che ricorda un cane macilento che ulula con pause metriche alla luna, accanto al corpo di un compagno abbattuto su una stretta strada di provincia.
Esiste un pianto che grida anche se non vorresti, che sale dal petto come un' esondazione e spezza la voce in misure frammentate di lamenti, ed è un lamento, effonde lamenti feriti e ricorda l' animale senza educazione che sussiste nella carne dell' uomo...

Stamattina ho sognato che piangevo.
Il mio amore mi era accanto e mi chiedeva, mi domandava, mi teneva il braccio attorno alle spalle.
Io piangevo.
Ed era quel pianto lì, quella crudele e dolente discesa nel gorgo di un dolore sconosciuto e non necessario.
Capisco che il mio pianto a dirotto non è mai esploso a gridare un dolore necessario, un dolore inevitabile, un dolore equo.

E' finora stato sempre utile, forse mai legittimo.


Mara

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lunedì 5 gennaio 2009

La ballerina che danza sul filo.

Il filo della ballerina è sottile come un capello di fata e a tratti luccica come la scia della luna sul mare nero.

Non si scorge la fune dal buio degli spalti e l' "ooohhh!!!" che sale in coro verso la cupola del tendone di cera colorata è sincero al pari dell' incoscienza e della fiducia con cui la ballerina affronta lo spazio vuoto.

La punta di gesso della scarpetta è dura come la passione che accende le luci nel buio degli spalti; fomenta il pericolo in quel passo lungo su silenziosi occhi e teste variopinte voltate in su.

La ballerina non regge l' asta dell' equilibrio, non cammina un piede dopo l' altro strisciando sul filo come la coda di una lenta lumaca senza guscio.

Lei osa di più, vuole di più.

Così balla, danza nell' aria calda di umori e sospiri, rotea il suo tutù di pizzo non guardando mai il filo, non guardando mai giù, pizzicando l' aria con le sue piroette ritmiche sfidando la sua stessa paura, l' emozione del pubblico pagante che attende di respirare per un istante lungo e poi non più.

La ballerina, in bilico su un filo sospeso sul tutto che abbraccia, ha fede.

Ha fede che once di coraggio e misure di amor proprio mescolate nel filtro fatato che beve un attimo prima di indossare le scarpette e salire sulla scala fitta che la porterà alla fune, siano il segreto per un buono spettacolo.
Per una prova che faccia onore a lei per prima e la allunghi fino all' altra sponda, danzando come una lucciola nel buio della bella stagione.


Mara

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