Il tempo del pane e delle rose.

Anni cinquanta, primo dopoguerra, un cerchio di sedie di legno con l' imbottitura di paglia, nello spiazzo rasato di una casa colonica appena fuori dal centro del paese.
Gli sposi, due ragazzini con le guance rosse, usciti dalla guerra e dal giogo paterno con molta voglia di vivere, nascosta dietro sorrisi appena accennati ed espressioni composte.
Il tempo era quello delle maniche da rimboccare su avambracci scarni e del riposo notturno subito dopo il rosario, recitato come una canzone lenta tutti riuniti attorno al tavolo.
La fame aveva prodotto nuove energie e impeti al fare senza pigrizia nè egoismo.
Il sogno concreto era il lume sul moggio nelle case e la speranza non sapeva solo di illusione.
Pane e salame, dunque.
Una grossa pagnotta a testa, due per gli uomini.
Dicono sembrasse il pasto più buono al mondo...
Il pane si scheggiava in superficie, sulla crosta croccante, e aveva un cuore bianco, caldo e arioso che odorava di mani materne e fuoco, alimentato da uomini fatti.
Le nozze dei contadini appena liberati dagli alleati, concedevano a occhi e bocche di parenti e amici, solo un di più che sapeva delle feste che ricorrono una volta nella vita. Una tavolata di legno grezzo messa in un angolo, coperta di dolci fatti a mano da tutte le donne della famiglia, per giorni, a cominciare da quelli di pasta di mandorle e dai torroni, per finire con le creme e la ricotta con lo zucchero e il cioccolato.
Mamme e suocere, zie, cognate, nipoti, fidanzate, tutte a impastare e a friggere impasti che avrebbero ricordato la festa nelle voci dei vicoli e nei crocchi d' estate appena sfuori dagli usci.
Semplicità e ispirazione realistica.
Pane scuro, amore per il dovere, misurata fantasia.
Profumati tarallini inzuppati nel vino rosso e il freddo delle case in pietra dura.
Il tempo fuggito che si ricorda come la dolcezza di una nenia infantile.
Mara
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